
Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez è uno di quei romanzi che continuano a risuonare dentro, anche molto tempo dopo averli letti. La storia della famiglia Buendía, con il suo intreccio di eventi fantastici e quotidiani, ha il potere di parlare a ciascuno di noi, toccando corde profonde, spesso inconsapevoli. Durante la lettura si svela, ai nostri occhi, un mondo sotterraneo fatto di solitudini, traumi che si tramandano, identità incerte, e legami familiari che stringono fino a soffocare. È come se, sotto la superficie del racconto, si muovessero le stesse domande che ognuno di noi si porta dentro: quanto del nostro destino ci appartiene davvero? Quanta parte della nostra storia personale è scritta da chi è venuto prima di noi? Proverò a seguire alcune di queste tracce, lasciandomi guidare da ciò che Cent’anni di solitudine evoca, più che da ciò che descrive.
Il peso del passato: genealogia e destino
Una delle esperienze più potenti che Cent’anni di solitudine ci restituisce è quella della ripetizione. I nomi si tramandano — José Arcadio, Aureliano, Amaranta — come se il destino fosse già scritto in partenza. I personaggi sembrano costretti a rivivere gli stessi errori, gli stessi amori impossibili, le stesse fughe e gli stessi ritorni. È come se ogni generazione portasse dentro di sé non solo il proprio vissuto, ma anche quello di chi l’ha preceduta. E, inconsapevolmente, lo mettesse in scena ancora una volta, con altre forme, ma con la stessa intensità.
Questa ripetizione, che nel romanzo assume un ritmo quasi ipnotico, può essere letta anche come un’espressione di ciò che in psicologia chiamiamo trasmissione transgenerazionale del trauma. Sono quelle dinamiche psichiche che passano da una generazione all’altra non per via genetica, ma attraverso i silenzi, i non detti, le omissioni, le emozioni mai elaborate. A volte un figlio porta — senza saperlo — il peso di un dolore che non è suo, ma che gli è stato trasmesso attraverso lo sguardo, le assenze, le atmosfere emotive che ha respirato fin dalla nascita.
Nel lavoro clinico, non è raro incontrare pazienti che si trovano a ripetere situazioni o stati emotivi che non riescono a spiegarsi. Scelte che sembrano incomprensibili, ricorrenze affettive dolorose, sensi di colpa privi di colpa, vissuti di fallimento che non trovano radici nella loro storia personale. A volte è proprio lì che inizia il lavoro terapeutico: non tanto nel cercare una causa immediata, ma nell’ascoltare con attenzione ciò che si ripete, come un’eco lontana. In questi casi, la terapia può diventare uno spazio in cui interrogare quella ripetizione: a chi appartiene questo dolore? Da dove arriva questa voce interiore che non sembra nostra, ma ci abita?
Nicolas Abraham e Maria Torok hanno parlato di “cripti psichiche”, luoghi interiori in cui vengono rinchiusi segreti o traumi non condivisibili, che poi si trasmettono come fantasmi alle generazioni successive. Fantasmi che non fanno rumore, ma che agiscono: nella scelta di un partner, in un sintomo, in un senso di inadeguatezza profondo, in una tristezza antica che non si riesce a nominare. In terapia, questi “fantasmi” iniziano spesso a prendere forma attraverso il racconto. Non sempre in modo diretto, ma nei sogni, nei lapsus, in quelle ripetizioni che sembrano casuali e invece hanno una logica affettiva profonda.
Nel romanzo, ogni personaggio sembra portare dentro di sé un’eco del passato, come se non potesse mai davvero cominciare da sé. Le loro azioni non sono mai completamente libere: sono condizionate da fili invisibili che li legano a chi è venuto prima. Non c’è colpa, in questo. C’è piuttosto un profondo bisogno di sciogliere quei legami inconsci, di restituire alle cose un nome, un contorno, una verità. E forse, anche in questo caso, Márquez ci parla di una speranza: che conoscere le proprie radici, dare parola a ciò che è rimasto sepolto, possa interrompere il ciclo della ripetizione. La famiglia Buendía diventa così uno specchio che ci invita a chiederci cosa, nella nostra storia, ci appartiene davvero e cosa, invece, stiamo portando per qualcun altro.

La memoria, trauma, l'oblio
In Cent’anni di solitudine, il tempo non scorre in modo lineare. È circolare, avvolgente e, a tratti, caotico. Gli eventi sembrano ripetersi come in un sortilegio, e la sensazione è che nulla si concluda mai davvero, ma ritorni — sotto altre forme — a bussare alle porte di Macondo e delle sue anime. I personaggi vivono sospesi tra il ricordo e l’oblio: alcuni sono ossessionati dal passato, altri lo rimuovono, altri ancora lo attraversano come se non appartenesse nemmeno a loro. Ma il passato, in ogni caso, agisce. Non c’è davvero separazione tra ciò che è stato e ciò che è. Da un punto di vista psicologico, questo modo di vivere il tempo assomiglia molto a ciò che accade in presenza di un trauma non elaborato. Freud, con il concetto di ritorno del rimosso, ci aveva già mostrato come certi contenuti psichici, se troppo dolorosi o intollerabili, vengano esclusi dalla coscienza. Ma esclusi non vuol dire cancellati: continuano ad agire, come se cercassero una strada alternativa per esprimersi. Il trauma non parla con le parole del tempo ordinario, ma si imprime nel corpo, nei sogni, nei gesti ripetuti, a volte nei silenzi. Pierre Janet è stato tra i primi a distinguere tra due tipi di memoria: quella narrativa, che ci permette di raccontare un’esperienza e darle un senso, e quella traumatica, che invece resta “bruta”, scollegata dal racconto di sé. È una memoria frammentata, sensoriale, fatta di immagini, di suoni, di odori — una memoria che non si ricorda, ma si rivive. Su questa linea, Bessel Van Der Kolk ha descritto il trauma come qualcosa che si imprime nel corpo prima che nella mente, e che per questo motivo tende a sfuggire al linguaggio razionale. Quando non si può raccontare ciò che è accaduto, lo si continua a vivere — in modo inconsapevole — attraverso i sintomi, le ripetizioni, gli inciampi relazionali. Nel romanzo, tutto questo prende forma simbolica: i personaggi perdono la memoria, dimenticano i nomi delle cose, confondono il presente con il passato. Ci sono interi momenti in cui Macondo sembra un paese colpito da un’amnesia collettiva. Eppure, quel che è stato non sparisce: si ripresenta, si insinua, si ripete. Come accade anche nella psiche, dove il non detto non si dissolve, ma continua ad agire. La perdita della memoria non è solo una dimenticanza, ma una difesa profonda: un modo per tenere lontano ciò che sarebbe troppo doloroso da affrontare. Ma questo oblio ha un prezzo, perché inchioda chi lo vive in un eterno ritorno, privo di trasformazione. Il lungo e paziente tentativo di decifrare i manoscritti dei gitani — che attraversa l’intera narrazione — può essere letto anche come un’immagine del lavoro psichico: cercare un senso in mezzo al caos, dare parola a ciò che era rimasto muto, ritessere una storia là dove sembrava esserci solo frammentazione. Quando ciò che era stato escluso dalla coscienza può finalmente essere nominato, anche il trauma può iniziare a perdere potere. Ed è questo, in fondo, uno dei compiti più profondi di una terapia: fare spazio a una memoria che non sa ancora raccontarsi, affinché possa finalmente diventare storia.

La solitudine come difesa
La solitudine, in Cent’anni di solitudine, non è solo un tema: è un’atmosfera, una condizione dell’anima che attraversa l’intera genealogia dei Buendía. È un tratto che si eredita, come i nomi e i destini. José Arcadio Buendía si perde nel suo laboratorio tra le sue ossessioni e si isola dal mondo in una ricerca senza fine; Fernanda chiusa nella sua rigidità regale; Amaranta e il suo filo nero che rifiuta ogni possibilità d’amore e si chiude in un eterno lutto; Remedios la bella sembra vivere in un’altra dimensione, lontana dalla realtà degli altri. Ognuno, a modo suo, sceglie — o subisce — la solitudine come unica modalità possibile per esistere. La parola “solitudine” è nel titolo, ma non è solo un titolo: è la materia stessa di cui è fatta la vita dei Buendía. Una solitudine che non è semplice isolamento fisico, ma una condizione più profonda, esistenziale, che segna ogni personaggio con tonalità diverse. È una solitudine che si tramanda, come se fosse un’eredità familiare. Una solitudine che a volte protegge, a volte imprigiona. Che salva dall’incontro, ma al tempo stesso lo impedisce. André Green ha parlato di “morti psichiche”, riferendosi a quegli stati in cui il soggetto si ritira dal legame, come se spegnesse il proprio desiderio pur di non sentire più il dolore della perdita o dell’assenza. In questi casi, la solitudine diventa un rifugio, ma anche una prigione, eppure, all’esterno, può apparire come una forma di calma, di distanza, di autonomia. In realtà, spesso si accompagna a un profondo senso di vuoto, a una tristezza senza nome. Nel mondo di Macondo, la solitudine è così diffusa da sembrare inevitabile ma forse è proprio questo il punto: Márquez mette in scena una società in cui il legame è sempre in bilico, sempre minacciato da qualcosa di più forte — la memoria, il dolore, la follia, l’attesa. E allora si resta soli non per scelta, ma perché non si riesce a stare con l’altro senza perdere qualcosa di sé. La solitudine dei Buendía non è solo tristezza, è il tentativo disperato di sopravvivere alla confusione dei legami, al peso della storia, all’angoscia del contatto profondo. Perché amare, relazionarsi, affidarsi, espone sempre a una possibilità di ferita. E così, per evitare la sofferenza, si può scegliere — più o meno consapevolmente — la strada dell’autosufficienza, del ritiro, della chiusura. È una difesa profonda, che spesso ha radici precoci, là dove il legame è stato percepito come pericoloso, ambivalente, inaffidabile. Il paradosso è che, per proteggersi dal dolore dell’amore, si finisce per rinunciarvi del tutto. Ma il bisogno non si spegne: si nasconde, e diventa malinconia. Per ognuno di noi questa solitudine della quale parlo potrebbe tradursi nella sensazione di non riuscire mai davvero a essere visti, capiti, toccati nel profondo. Una distanza che non si colma nemmeno in presenza degli altri; è una solitudine più sottile ma forse ancora più dolorosa: quella dell’inaccessibilità reciproca. E, infatti, Cent’anni di solitudine ci mostra anche il prezzo di quella difesa: la ripetizione dei fallimenti affettivi, l’impossibilità di costruire qualcosa che duri, la chiusura in destini che sembrano immutabili. È come se ogni personaggio custodisse un tentativo incompiuto di uscire da quella solitudine, ma non trovasse mai le parole o i gesti giusti. Come se, per spezzare il sortilegio, servisse proprio ciò che non è mai stato trasmesso: un’esperienza di intimità autentica, dove la presenza dell’altro non sia pericolosa, ma trasformativa.

La ricerca di sé e le crisi d'identità
La ricerca dell’identità è un tema che si intreccia in modo drammatico con il destino dei Buendía in quanto ogni generazione sembra lottare con un senso di smarrimento, alla ricerca di un’identità che sfugge continuamente. Ancora una volta ciò viene reso palpabile dall'utilizzo della ripetizione che crea una sensazione di stasi: i personaggi vivono in un eterno ritorno, senza mai riuscire a definire con chiarezza chi sono davvero al di fuori del loro legame familiare e delle aspettative che li opprimono. I Buendía non sono in grado di sviluppare una identità integrata, che tenga conto della loro storia personale, dei loro desideri, delle loro paure e dei loro legami. Piuttosto, sono costantemente alla ricerca di un “Io” che li rappresenti ma che non riescono mai a trovare veramente. La confusione tra passato e presente, tra sogno e realtà, tra identità individuale e collettiva, li intrappola in un circolo senza uscita. Questo tema della crisi di identità è ben noto in psicologia. La psicologia dello sviluppo, in particolare quella di Erik Erikson, ha ampiamente trattato il concetto di identità come un processo dinamico e continuo, che si sviluppa attraverso diverse fasi della vita. La crisi adolescenziale, per esempio, è uno dei momenti cruciali in cui l’individuo cerca di rispondere alla domanda “Chi sono io?”. Ma la ricerca dell’identità non finisce nell’adolescenza: può essere una costante, una continua rielaborazione che avviene anche in età adulta. Quella che possiamo osservare nei Buendía, però, non è una ricerca attiva di sé, ma una continua dispersione: ogni volta che un personaggio tenta di trovarsi, finisce per perdersi di nuovo, come se fosse prigioniero di un destino che non può sfuggire. Nel lavoro clinico, spesso le persone riportano una sensazione simile: una perdita di contatto con se stesse, una difficoltà a definire chi sono davvero al di là delle loro relazioni, dei ruoli sociali, dei legami familiari. La crisi identitaria può manifestarsi in vari modi: insoddisfazione, confusione, sensazione di non riuscire a “cogliere” davvero il proprio posto nel mondo. A volte, questa ricerca di sé è il risultato di un conflitto profondo tra le aspettative esterne (che possono venire dalla famiglia, dalla società, dai ruoli che ci vengono imposti) e il desiderio di un’autenticità che sembra inafferrabile. Come i Buendía, anche molte persone vivono con un senso di estraneità rispetto alla propria esistenza, senza riuscire a raggiungere una visione chiara e stabile del proprio “Io”. Nel romanzo, la ricerca dell’identità è sempre connessa a un movimento di evasione: i personaggi cercano continuamente di sfuggire a sé stessi, di eludere quella che considerano una prigione esistenziale ma più cercano di fuggire, più la loro identità diventa labile e insoddisfacente. Márquez sembra suggerirci che, per trovare una propria identità solida e autentica, è necessario non fuggire da ciò che siamo ma affrontarlo: accogliere la nostra storia, le nostre contraddizioni, le nostre ferite. La vera scoperta di sé non avviene nell’evitare i conflitti interiori, ma nel risolverli, nel riconoscere chi siamo, a partire dal nostro passato, dalle nostre radici, ma anche dai nostri desideri più profondi.

In conclusione, Cent’anni di solitudine è un romanzo che, nel suo incedere ciclico, ci parla di un mondo che sembra imprigionato nelle proprie ripetizioni, nel proprio destino. I Buendía vivono senza mai riuscire a sfuggire ai fantasmi del passato, come se tutto fosse già scritto. Ma ciò che colpisce, in fondo, non è tanto la condanna alla solitudine e alla ripetizione, quanto la continua ricerca di un senso, di una via d’uscita, di una trasformazione che non arriva mai davvero, ma che rimane sospesa nell’aria, come un sogno in attesa di compiersi.
Nel lavoro terapeutico, spesso incontriamo la stessa dinamica: la ripetizione di schemi, di relazioni, di emozioni che sembrano sfuggire alla coscienza del paziente. Eppure, proprio come accade nei romanzi più ricchi di simboli e di significato, anche la ripetizione può contenere una speranza. Se si riesce a fermarsi e guardare quella spirale di eventi da un’altra angolazione, può emergere una nuova consapevolezza. A volte, il solo fatto di poter raccontare, di dar forma a ciò che prima restava sepolto, è sufficiente a creare una piccola frattura nel ciclo infinito del ripetersi. E quella frattura, sebbene piccola, è la porta che può portare al cambiamento.
Márquez ci insegna che, per quanto l’uomo possa sembrare prigioniero delle sue circostanze, delle sue memorie non raccontabili, delle sue solitudini, la consapevolezza di sé resta un possibile punto di partenza. Se la solitudine e la ripetizione sono eredità, non è detto che debbano rimanere tali. La psiche, proprio come Macondo, ha una sua capacità di rinnovamento e la possibilità di rivelare e di trasformare i propri fantasmi non è mai preclusa ma, anzi, è attraverso l’intima e faticosa comprensione dei propri legami più nascosti che possiamo dare vita a nuove storie, che si staccano finalmente dalla ruota della ripetizione.
Anche per questo motivo l’obiettivo non è mai quello di fare finta che il passato non sia esistito ma di renderlo finalmente un racconto che possiamo abitare con maggiore consapevolezza. Macondo, alla fine, scompare e lo fa in un modo che potrebbe sembrare liberatorio: le sabbie del tempo inghiottono la città ma l'ultima pagina del romanzo è anche un racconto di conoscenza in quanto le chiavi del destino sono finalmente svelate.
Bibliografia
Erikson, E., (1995). Gioventù e crisi d'identità. Roma: Armando Editore.
Freud S., (1914), Ricordare, ripetere, rielaborare, OSF 7, Bollati
Boringhieri, 1977.
Freud S., (1915), La rimozione, OSF 8, Bollati Boringhieri, 1978.
Freud S., (1925), Inibizione, sintomo e angoscia, Bollati Boringhieri, 2000.
Green A., (2018), Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Raffaello Cortina.
Márquez G. G., (1967) Cent'anni di solitudine. Mondadori.
Torok M., (1989) Préface in N. Rand Le cryptage et la vie des œvres: du secret dans le texte Aubier..
Janet, P., (2016). Trauma, coscienza, personalità. Scritti clinici di Pierre Janet. Raffaello Cortina.
Van Der Kolk B., (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell'elaborazione delle memorie traumatiche. Raffello Cortina.
Crediti immagine
I Frame sono tratti dalla serie Cent’anni di solitudine creata da José Rivera, Netflix, 2024.
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